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Doveri coniugali, la via della Chiesa va oltre i diritti individuali
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Doveri coniugali, la via della Chiesa va oltre i diritti individuali

Considerazioni dopo la sentenza CEDU che interviene su "doveri coniugali" e rapporti intimi.

Non è svuotando il matrimonio della dimensione giuridica originaria che si potranno garantire i diritti della persona e tutelarne le libertà fondamentali, ma ricollocando questa dimensione nelle sue coordinate originarie di verità e bene, di libertà e amore, di dono e vita. Considerazioni dopo la sentenza Cedu che interviene su "doveri coniugali" e rapporti intimi.

di Mons. Damiano Cavallaro* (29-01-2025)

«I rapporti intimi non sono [più] un dovere coniugale». È di questi giorni la notizia del pronunciamento, alquanto originale, della quinta sezione della Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), in un caso di divorzio giudiziale, sull’attribuzione dell’addebito ad una donna francese di 69 anni per essersi sottratta ai propri doveri coniugali, smettendo di avere rapporti sessuali con il marito: «L’esistenza del dovere coniugale di avere rapporti sessuali – ha sentenziato la Corte di Strasburgo – è contraria alla libertà sessuale e al diritto di disporre del proprio corpo, oltre che all’obbligo per gli stati di prevenzione in materia di lotta alla violenza domestica». Per tale ragione, «la Corte non può accettare che il consenso al matrimonio implichi il consenso a future relazioni sessuali». «I tribunali finalmente smetteranno di interpretare la legge francese attraverso la lente del diritto canonico – ha chiosato l’avvocato difensore Lilia Mhissen – e di imporre alle donne l’obbligo di avere rapporti sessuali all’interno del matrimonio».

Davvero il diritto canonico – vale a dire la Chiesa –, nei secoli, ha “imposto” alle donne l’obbligo di avere rapporti sessuali all’interno del matrimonio? La contemplazione di precisi diritti e doveri all’interno del vincolo coniugale è realmente foriera di violenza e di sopraffazione, spesso ai danni della donna? La Corte di Strasburgo – o qualsiasi altra Corte – ha il potere di escludere determinati elementi dall’oggetto proprio del consenso matrimoniale? Può essere questa una soluzione efficace alla piaga della violenza domestica e, in specie, dello stupro ai danni della donna all’interno del matrimonio?

Anzitutto, bisogna dire che la sentenza del 23 gennaio 2025 segna l’epilogo di una lunga causa giudiziale iniziata nel 2012, approdata alla Corte d’Appello nel 2019, alla Cassazione francese nel 2020 e portata, quindi, all’attenzione della Cedu nel 2021, invocando l’art. 8 della Convenzione, che tutela il rispetto della vita privata e familiare, col sostegno pubblico delle due associazioni Fondation des Femmes (Fondazione delle donne) e Collectif Féministe Contre le Viol (Collettivo femminista contro lo stupro).

Dal matrimonio in oggetto, contratto nel 1984, sono nati quattro figli, di cui uno disabile e bisognoso di costanti cure. Dopo ventotto anni di matrimonio, nel 2012, la donna chiede il divorzio, sostenendo che l’uomo ha dato priorità alla carriera, a scapito della vita familiare, e che è stato irascibile, violento e offensivo. In opposizione, il marito chiede l’addebito del divorzio alla moglie, accusandola di essersi sottratta per anni ad ogni intimità coniugale. La donna ammette, sì, di aver smesso di avere rapporti sessuali, a cominciare dal 2004, ma a causa di problemi di salute, nonché di abusi da parte del marito.

Il primo grado di giudizio assume una posizione “neutrale”, stabilendo che non vi siano gli estremi per attribuire l’addebito a nessuno dei due coniugi, dal momento che i problemi di salute della donna rappresentano una motivazione sufficiente per l’astinenza dai rapporti intimi. Non soddisfatta, la donna ricorre al Tribunale d’Appello, vedendosi però attribuire, questa volta, la responsabilità esclusiva del divorzio, con il conseguente addebito economico, dal momento che «i dati medici non possono giustificare il continuo rifiuto di rapporti intimi col marito». La Cassazione francese conferma la sentenza di secondo grado. Gli avvocati della donna si rivolgono, quindi, a Strasburgo e la Cedu ribalta completamente il giudizio dei tribunali francesi e, in un certo senso, riscrive le coordinate essenziali dell’ordinamento giuridico matrimoniale.

Occorre ancora notare come la sentenza della Cedu sia stata emessa ad un mese dall’importante – davvero drammatico – processo per stupro di massa perpetrato, per oltre dieci anni, ai danni di Gisèle Pelicot, con la condanna del marito – vent’anni di carcere – e di altri cinquanta uomini, per stupro, tentativo di stupro e violenza: un processo che ha scosso l’intera nazione, provocando la richiesta condivisa di misure più severe contro la violenza sessuale.

Nel caso in questione, la Cedu giunge a dichiarare l’esclusione dal consenso matrimoniale di qualsivoglia diritto agli atti coniugali e del corrispettivo dovere di compierli, attraverso un articolato – per non dire “aggrovigliato” – gioco di riferimenti normativi incrociati, tra l’ordinamento francese, la giurisprudenza in materia e gli artt. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La sequenza logico-argomentativa fondamentale, però, può sintetizzarsi in cinque passaggi: 1) il diritto al rispetto della vita privata corrisponde anzitutto alla garanzia della libertà sessuale e del diritto di disporre del proprio corpo; 2) questa tutela comporta, in negativo, l’obbligo di evitare ogni ingerenza arbitraria dell’autorità pubblica nella vita privata dell’individuo e, in positivo, l’adozione di quelle misure necessarie a garantire l’effettivo rispetto del diritto alla vita privata anche nei rapporti tra individui; 3) il margine di apprezzamento riconosciuto all’autorità giudiziaria nazionale nell’interpretazione delle norme in questione è tanto più ristretto quanto più risulta “intimo” l’aspetto della vita privata implicato; 4) il solo divieto penale dei reati sessuali commessi all’interno della coppia non basterebbe a garantire adeguatamente la tutela della vita privata; 5) l’obbligo matrimoniale previsto dall’ordinamento giuridico interno della Francia non comprenderebbe, in alcun modo, il consenso all’attività sessuale e, se così non fosse, risulterebbe negata la natura riprovevole dello stupro coniugale.

Se gli intenti della Cedu appaiono chiari e del tutto condivisibili – chi non vorrebbe l’eliminazione di ogni violenza, specialmente nella sfera più intima della persona? –, le conclusioni alle quali giunge risultano quantomeno discutibili. Il diritto che regola il matrimonio all’interno di una società civile può davvero ridursi ad un gioco di contrapposizione e bilanciamento dei diritti individuali? Si deve davvero introdurre, anche all’interno della coppia matrimoniale, il principio hobbesiano dell’homo homini lupus, che regola ogni rapporto giuridico a partire dalla prospettiva “patologica” dell’egoismo? Il diritto di disporre del proprio corpo e la cosiddetta libertà sessuale non vengono in alcun modo coinvolti e implicati nell’atto del consenso matrimoniale? Nel matrimonio non ci sono forse diritti e doveri che le parti si comunicano reciprocamente e per amore? E se ci sono, in quale modo devono essere intesi?

Bisogna dire che, per la Chiesa, il diritto non si radica mai innanzitutto nella sfera della “volontà” statale o individuale – come vorrebbe il positivismo giuridico dominante –, bensì e prima di ogni altra cosa nella sfera della “natura”: è dalla struttura naturale “creata” della persona – di ogni persona –, dalla costitutiva distinzione sessuale maschio-femmina e da quell’inclinazione, anch’essa naturale – e non solo istintiva –, che orienta l’uomo e la donna, in ogni loro componente, al dono reciproco di se stessi, che deriva per la Chiesa l’intero diritto matrimoniale. E quando nella Chiesa – come nella migliore filosofia del diritto – si parla di “natura”, non si intende la “giungla”, bensì tutto ciò che nell’uomo è “originario” e “intelligibile”, comprendente la struttura uni-duale di anima e corpo, la distinzione sessuale di maschio e femmina e quelle reciproche inclinazioni e attrattive tanto spirituali, quanto psicologiche e corporali, che nel matrimonio e nella famiglia trovano il proprio fisiologico sviluppo e perfezionamento.

La Chiesa crede, vive e annuncia che ogni persona è creata dall’amore e per l’amore, che l’uomo e la donna sono capaci di donarsi reciprocamente e per tutta la vita, costituendo tra loro quel legame, vale a dire quell’appartenenza unica ed esclusiva, definitiva e indissolubile, stabile e feconda che il cuore – ogni cuore – ardentemente desidera. La Chiesa crede, vive e insegna che questa appartenenza reciproca, che gli sposi stabiliscono tra loro liberamente, trae la propria forza e riceve il proprio orizzonte di senso dall’Amore di Dio che, in Cristo, si è unito per sempre all’umanità e che, sulla Croce, ha consumato le Nozze eterne con la Chiesa. La Chiesa crede, vive e insegna, perciò, che la dimensione giuridica del matrimonio non dipende anzitutto dalla legge positiva emanata dallo Stato, ma dalla dimensione intrinsecamente giuridica dell’amore che unisce gli sposi, «al punto da far sì – diceva Benedetto XVI alla Rota Romana nel 2007 – che marito e moglie si debbano a vicenda l’amore che spontaneamente si vogliono: l’amore è in essi il frutto del loro libero volere il bene dell’altro e dei figli; il che, del resto, è anche esigenza dell’amore verso il proprio vero bene».

Amore e diritto, verità e bene sono tra loro così indissolubilmente legati che, laddove ad esempio il bene e la dignità del coniuge venissero radicalmente negati fin dal primo istante, l’intero matrimonio ne risulterebbe completamente compromesso, al punto da essere nullo. Se poi questo bene e questa dignità venissero negati solo in un momento successivo, al punto da mettere a repentaglio l’incolumità psico-fisica della persona, ne risulterebbe legittimata la separazione, stante la validità e, quindi, il perdurare del vincolo contratto.

Se, per un verso, sarebbe semplicemente “assurdo” affermare che, donandosi reciprocamente, gli sposi acquisiscano un “potere” illimitato sulla persona dell’altro, da esercitarsi anche contro la sua volontà, per l’altro, si deve affermare che al matrimonio appartiene una vera, originaria e, perciò, intrinseca dimensione di giustizia, che vede gli sposi “chiamati”, per tutta la vita, all’amore reciproco e verso i figli. Non è perciò svuotando il matrimonio di questa dimensione giuridica originaria che si potranno garantire i diritti della persona e tutelarne la libertà fondamentali, bensì ricollocando questa stessa dimensione nelle sue coordinate originarie di verità e bene, di libertà e amore, di dono e vita.

Da un tale diritto – che nella Chiesa si chiama “diritto canonico” –, non solo lo Stato francese, come ogni altro Stato e ordinamento, non avrà mai bisogno di difendersi, ma, al contrario, potrà sempre trarre quell’insostituibile chiarezza che, proprio grazie alla Chiesa, ancora sopravvive nella storia umana, mostrando, difendendo e promuovendo la dignità dell’uomo e della donna, la verità dell’amore e il bene della vita, in quell’orizzonte ultimo e in quell’altissima vocazione che a tutti è rivolta, che tutti rispetta e che tutti vuole consumare nell’amore.

*Sacerdote e Avvocato rotale

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