Il Medioevo può insegnarci la speranza, altroché secolo buio
Intervista al professor Alessandro Ghisalberti.
di Don Samuele Pinna (31 dicembre 2024)
Il Medioevo continua a possedere un fascino che nessuna “leggenda nera” pare riuscire ad affievolire nel sentire comune. Se si pensa soltanto ai libri di letteratura più venduti del secolo scorso, ci si accorge di come il “clima” medievale sia una costante che ritorna con forza: dal nostrano Il nome della Rosa di Umberto Eco a capolavori come Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, dove le avventure – seppur in un mondo immaginario – ricalcano quelle di un contesto medievale, e Le cronache di Narnia di C.S. Lewis in cui i protagonisti, anche in questo caso, si trovano catapultati in un mondo fantastico e dai tratti caratteristici dell’Età di mezzo. Lo stesso si può dire della saga più fortunata di fine millennio, Harry Potter di J.K. Rowling, dove si respira un’aria – tra castelli e incantesimi latineggianti – dal sapore antico. Eppure, è ancora in voga la leggenda di un periodo storico oscurantista.
M’incontro con il professor Alessandro Ghisalberti, studioso di fama mondiale e per decenni docente presso l’Università Cattolica di Milano, per chiedere lumi: «Il medioevo», mi sento rispondere, «abbraccia un periodo lunghissimo, mille anni, all’inizio dei quali ci fu la dissoluzione dell’impero romano, con la conseguente dispersione per diversi secoli della cultura classica e con la frammentazione dell’Europa, con la nascita dei regni cosiddetti “barbarici” e la perdita dell’unità economica, per cui almeno sino al IX secolo (in cui visse Carlo Magno) le attività agricole e produttive in generale conobbero grosse difficoltà. La ripresa, anche con l’incremento della urbanizzazione, avvenne nei secoli dopo il mille. A parlare di “secoli bui” contribuì la periodizzazione invalsa all’inizio dell’età moderna, quando il millennio venne considerato storicamente deficitario, una età “media” – cioè da superare – tra l’età classica greco-romana e il “Ri-nascimento”, quando avvenne il recupero di gran parte del patrimonio classico sul piano culturale e su quello civile».
Incalzo: ma l’Età di Mezzo fu davvero così buia come vorrebbe una certa vulgata? «In realtà durante questi mille anni ci furono molti cambiamenti che in un modo o nell’altro hanno contribuito all’evoluzione del mondo: per il cristianesimo ci furono acquisizioni rilevanti, che hanno la loro efficacia anche nell’oggi, quali la nascita della teologia come scienza, la diffusione e il consolidamento delle grandi istituzioni monastiche, che operarono sia sul piano civile sia per salvare i testi della classicità e anche quelli dei Padri della Chiesa. I valori dell’etica cristiana resero la convivenza tra i popoli più facile, si diffusero nuove conoscenze mediche e scientifiche, si produsse il passaggio dall’oralità alla diffusione della scrittura e, con l’invenzione delle università, si moltiplicarono i codici manoscritti, arricchiti da preziose miniature; si registrò la creazione di biblioteche, che permisero la diffusione e la trasmissione dei saperi sino a quando venne inventata la stampa. Le belle arti (architettura, scultura e pittura), soprattutto nei secoli del medio e basso Medioevo, hanno conosciuto evoluzioni e innovazioni, testimoniate da monumenti e dipinti che sopravvivono ancora oggi, e a questi splendidi lasciti oggi le persone si rivolgono, come ai grandi segnali di “luci” che squarciarono i “secoli bui”».
Non posso esimermi dal domandare quanto sia prezioso il pensiero di quei secoli rispetto al nostro tempo: «Parto da una constatazione, ossia che la maggioranza delle culture di oggi, di mia conoscenza, sono contrassegnate da problemi e produzioni molto distanti dal pensiero medievale, che era universalistico, segnato dalla condivisione della fede e dei dogmi cristiani, con la conseguente assunzione di canoni etici riconducibili ai modelli evangelici proposti dalla Chiesa del tempo. Premesso ciò, provo a evidenziare alcuni tratti della cultura medioevale (assai variegata, perché – come dicevo – il medioevo abbraccia mille anni, e dunque ci furono cambiamenti), che potrebbero essere assunti come stimoli validi per la complessità culturale dell’oggi. Anzitutto, l’incontro verificatosi nel Medioevo centrale tra molteplici culture e tradizioni filosofico-scientifiche, a loro volta connesse con religioni diverse (in primis con il cristianesimo) produsse un dialogo benefico, al quale parteciparono, oltre alle componenti peripatetiche, greco-arabe ed ebraiche, anche altre correnti dottrinali, che interagirono nel dibattito interculturale; significativo l’apporto dell’ermetismo dotto, filosofico e teologico, del neoplatonismo tardo-antico, delle letture teologiche degli autori bizantini, e altresì delle opere classificabili come letteratura didattica (enciclopedie, etimologie, manuali di istituzioni) trasmesse dall’antichità classica greco-latina.
Il Medioevo accolse la partizione del sapere secondo il modello delle “arti liberali”, a lungo egemone sul piano didattico, confluito poi nella facoltà delle arti, che le università medievali attivarono come percorso formativo previo ad ogni specializzazione accademica. Le università sono un’invenzione medievale, e avviarono il metodo della ricerca scientifica adottato per secoli dalle università moderne; i modelli della ricerca scientifica basata sui testi, proposti soprattutto nel basso medioevo, sono punti di riferimento ancora per gli studiosi di oggi. Inoltre le loro strutture a carattere internazionale e le loro produzioni scientifiche segnarono il medioevo con una tipologia di cosmopolitismo, che oggi (pur tenendo conto che il mondo medioevale lasciava fuori di sé, perché la ignorava, tutta la parte del nuovo mondo, quindi interi continenti), potrebbe aiutare il bisogno di superare le contrapposizioni ideologiche, politiche e religiose che sono all’origine delle guerre e di una globalizzazione assai discriminatoria».
Rilancio per sapere quanto abbia inciso lo studio di questi autori sulla fede personale del mio interlocutore: «Indubbiamente il confronto, spesso assai empatico, con questi grandi pensatori ha suscitato molte aperture a livello di quello che Anselmo d’Aosta, dopo Agostino, chiamava l’intellectus fidei, e ancora la fides quaerens intellectum: la fede alla ricerca dell’intelligenza, la fede che apre all’intelletto aree di conoscenze che la filosofia da sola non potrebbe sapere. Quindi venni spinto a studiare le teologie che sono state sviluppate a partire dal Concilio ecumenico Vaticano II; la stessa teologia biblica, che negli autori medievali aveva avuto un posto centrale (per gli autori dell’alto medioevo la teologia era costruita sulla sacra pagina), consentì di progredire nella passione per l’incontro tra filosofia e rivelazione».
A proposito, voglio capire qual è l’autore che ha colpito di più l’esimio cattedratico: «La domanda mi mette in qualche difficoltà, perché questi autori hanno segnato trasversalmente varie epoche della mia vita e dei miei studi, e negli anni che ho dedicato in successione a ciascuno mi sono legato e un po’ “identificato” con ciascuno di essi, perché il fascino intellettuale mi aiutava a penetrare le loro opere, a volte assai complesse e voluminose, e alcuni di questi personaggi entrarono anche nei miei sogni notturni, cosa su cui Freud avrebbe tanto da dire… Se Tommaso è stato agli esordi l’autore prediletto, perché a lui ho dedicato la mia tesi di laurea su Eternità e tempo in Tommaso d’Aquino, dalla quale ho ricavato le mie prime pubblicazioni sulla Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, nei passaggi successivi ho studiato gli autori della scuola francescana medioevale, e, a ritroso Agostino, Anselmo, Gioacchino da Fiore. A Gioacchino sono arrivato studiando le opere di Joseph Ratzinger dedicate alla teologia della storia di san Bonaventura, e mi si è aperto lo sguardo sugli altri autori collegabili con l’incidenza dello Spirito Santo nelle dinamiche della vita della Chiesa e dei credenti, sospinti a farsi carico del futuro, dei grandi temi dell’escatologia cristiana, che poi ho evidenziato negli studi dedicati a Dante e a Ildegarda di Bingen».
Davanti alla menzione di Tommaso d’Aquino – di cui si celebra il 750° l’anniversario dalla morte – devo approfondire: la teologia cattolica ha trovato in lui un maestro sicuro, ma perché è così importante il suo pensiero ancor oggi? «Avendo accolto la prospettiva filosofico-scientifica di Aristotele, Tommaso ha permesso al sapere teologico di restare in campo anche in età moderna, quando la scienza dichiarò che i contenuti religiosi restavano nell’ambito della soggettività. L’epistemologia teologica di Tommaso, fondata sul metodo logico-scientifico di Aristotele, si mantenne in dialogo con i saperi dell’età illuministica: portato a valorizzare le condizioni empiriche del cosmo, il Dottore Angelico non poteva accettare ogni dottrina che implicasse una svalutazione della materia di radice gnostica e manichea, perché avrebbe compromesso la dottrina stessa della creazione come libero atto di amore di Dio. La componente materiale nell’uomo, oltretutto, è importante perché essa configura il luogo dell’agire umano, del lavoro con cui l’uomo trasforma i prodotti della terra e ne incrementa le risorse, divenendo così il collaboratore dell’azione creatrice di Dio.
Anche l’antropologia di Tommaso resta un punto di riferimento nell’area della filosofia e teologia cattoliche, perché le difficoltà maggiori oggi in antropologia si registrano circa l’oltrepassamento della morte, e precisamente circa sopravvivenza dell’anima alla morte del composto di anima e corpo. Tommaso ha elaborato una prospettiva che divenne la dottrina comune della Chiesa, recepita anche dal concilio di Vienne del 1311: l’anima intellettiva è forma sostanziale del corpo, ossia l’anima è l’atto primo del corpo, quello che dà l’essere in assoluto all’uomo, sinolo di anima e corpo, ma contemporaneamente l’anima umana, che ha il proprio vertice nell’intelletto, è una forma spirituale e sussistente, cioè ha l’essere in proprio, esiste autonomamente, come si arguisce dal fatto che esercita alcune operazioni in autonomia rispetto al corpo: l’anima possiede infatti la conoscenza di tutti i corpi, conosce gli universali e ha l’autocoscienza, attività queste alle quali il corpo non partecipa. Se è forma immateriale e sussistente, l’anima deve essere immortale: in quanto forma essa non può corrompersi, dato che la forma è per definizione principio dell’essere».
A tal proposito, prima di congedarmi, chiedo al docente di lungo corso come giudica teoreticamente i nostri tempi e quale speranza vuole dare a partire dai suoi studi medievistici: «La domanda molto impegnativa mi porta a cercare delle risposte segnate dalla leggerezza dello sguardo, ossia senza le presunzioni di un anziano che pensi di dare giudizi perentori sul passato e sul presente. Il nucleo centrale da cui parto per esplicitare degli spunti circa il “giudizio teoretico” sul tempo presente, è il tema della speranza, nella sua chiave di attesa del futuro, che esemplifico con una domanda: che cosa si sa o che cosa si può dire e sperare circa l’attesa del futuro da parte dell’uomo di oggi? Se ogni specie animale cerca di sopravvivere, è pensiero condiviso che solo l’uomo è l’essere che sa di dover morire, e che con questa destinazione deve fare i conti nel corso della sua vita. Se le filosofie esistenzialiste hanno per questo elaborato il tema dell’angoscia, oppure il tema della attribuzione alla morte la forza di costringere a una valutazione della propria esistenza in rapporto alla felicità esistenzialmente possibile nel quotidiano, lo sguardo proprio soprattutto della filosofia d’ispirazione cristiana è quello della speranza, rivolta verso la trascendenza. Se penso alle tradizioni filosofiche del medioevo e alla loro modalità di pensare costantemente alla vita oltre l’esistenza corporea, mi viene spontaneo dire che siamo molto lontani dal modo in cui l’uomo di oggi affronta il problema dell’oltrepassamento del limite e della finitudine. Leggendo le valutazioni degli intellettuali, ma anche guardando alle cronache dei giornali e ai reportage in chiave sociologica di autori di varie estrazioni, mi pare che il dato comune rintracciabile nell’antropologia prevalente di oggi possa essere siglato nelle parole che si aprono con il suffisso “meta”: metamorfosi, metafora, metabolismo, metaverso, oppure con il suffisso “super”: superuomo, con tutte le tecniche dell’acrobatica, assunte dagli uomini e dalle donne contemporanee, che nell’acrobatismo e nell’olimpismo inseguono un continuo superamento di sé. Una efficace osservazione del filosofo tedesco nostro contemporaneo Peter Sloterdijk (Karlsruhe, 1947), rileva che oggi “chi cerca uomini trova asceti, e chi osserva asceti trova acrobati”. Il termine “acrobatica” significa etimologicamente “camminare sulla punta dei piedi”, e così già si comprende la contro naturalità che è inclusa nel termine: si fa un allenamento obbligatorio per superare una posizione già raggiunta, mossi dall’ambizione, dall’orgoglio, dall’amor proprio, dalla volontà di primeggiare, dal desiderio di conseguire onori o riconoscimenti.
Mi riferisco a quell’aspetto della secolarizzazione dell’uomo contemporaneo, che non si confronta più con la trascendenza delle religioni o con l’ascetismo dei monaci delle tradizioni religiose, ma si dedica a pratiche ascetiche de-spiritualizzate, che includono un potenziato saper fare, ma anche un saper patire, come il parossistico esercizio ginnico per il miglioramento della forma fisica, o anche ricorrendo a tecniche chirurgiche e prodotti chimici. Dal punto di vista cristiano, la Chiesa cattolica si appresta nel 2025 a proporre un cammino di speranza in chiave non acrobatica, ma di condivisione, celebrando un Giubileo indetto dal Papa con la bolla Spes non confundit, e con il motto “Pellegrini di speranza”, con l’auspicio che ritorni un clima mondiale di speranza tra le molte guerre e le tante povertà ed emarginazioni, con la fiducia di un recupero dei valori aperti alla trascendenza».