Le nostre ferite guarite dalle Ferite di Cristo
Le ferite nostre non sono ostacolo all’avvenimento di Cristo, ma sono l’inevitabile condizione che permette il manifestarsi della sua misericordia.
II Domenica di Pasqua (Anno C) – 27 aprile 2025
Domenica della Divina Misericordia
At 5,12-16; Ap 1,9-11a.12-13.17-19; Gv 20,19-31
di don Ambrogio Clavadei
“Di ogni cosa perfetta ho visto il limite” (Sal 118, 96).
Potevano essere queste le parole che, con amaro realismo, ripetevano continuamente dentro di sé i discepoli rinchiusi nel Cenacolo dietro le porte chiuse del loro timore: “Di ogni cosa perfetta ho visto il limite”. Dopo un primo sussulto incoativo di fede, provocato dalla corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro dove avevano visto il sepolcro vuoto, si erano di nuovo ripiegati su loro stessi, pieni di paura: “Verrà l’ora – aveva detto Gesù – … in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo” (Gv 16, 32). Quell’ora, scattata con la Croce, durava ancora. Erano lì tutti insieme ma dispersi dal “timore dei Giudei” come prima della Pasqua, e così stavano di fatto ognuno per conto proprio, non erano ancora una compagnia.
Erano insieme ma soli, e si struggevano: «Non ce n’era uno più perfetto di Gesù. Non ce n’era uno più perfetto di lui, e non ce ne sarà mai più uno come quello che abbiamo incontrato e che abbiamo accompagnato per tre anni. Era perfetto. Solo lui aveva “parole di vita eterna” (Gv 6, 68). Eppure è caduto anche lui dentro la fossa del limite». Così pensavano, confusi e perplessi, perplessi per gli strani avvenimenti alla tomba, che non avevano ancora davvero capito. Come gli orfani di Pascoli, soli perché senza più la madre, non avevano più qualcuno che li consolasse e difendesse di fronte a tutti quei limiti che emergono inesorabilmente dalla vita e che portano a rinchiudersi in se stessi, a limitarsi di fronte al limite, come si fa quando manca una prospettiva concreta di infinito che vinca ogni limite.
E così stavano lì rinchiusi per timore dei Giudei, rintanati in un circolo chiuso qual’è diventato oggi strutturalmente il nostro mondo scristianizzato. Dice acutamente un saggista:
“La perdita di religione non è solo estraneità alla trascendenza, è taglio dei legami. Religio significa questo, in origine: essere legati, riconoscere un destino comune, sapere di non essere monadi gettate nel mondo. Da una parte viviamo l’inautenticità di un mondo impersonale e gregario, un regno dell’uomo-massa dove l’uomo-persona perisce, annegato nell’Ego. Dall’altro lato, l’ansia che attanaglia l’uomo privo di qualsiasi dimensione sacra, esterna, irrimediabilmente solo, che strappa sia le radici che lo ancorano nel tempo, sia i legami che lo uniscono allo spazio famiglia e della sua comunità. Un’ansia, un timore di perdere opportunità e piaceri che spinge alla corsa, all’agitazione, all’innalzamento continuo delle aspettative individuali e vede l’altro come nemico, un concorrente spietato nella conquista di esperienze. L’esistenza è vista esclusivamente nella prospettiva soggettiva. Gli esseri umani si trasformano in massa impersonale di soggetti isolati, nemici. La diffusione di questo stato mentale solipsistico provoca l’ansia di vivere sensazioni sempre nuove e cancella l’intimo desiderio di vivere con gli altri, aprirsi, formare una famiglia … stare con qualcuno. È la polverizzazione della famiglia, della comunità, delle relazioni – precarie, provvisorie, liquide – che getta nell’ansia oppure è il clima di ansia di massa a screditare i legami? L’uno e l’altro, con la conseguenza dell’isolamento interiore, unito alla promiscuità e al frastuono esteriore” (R. Pecchioli, in Maurizio Blondet)
Se davvero tutto finisse qui noi saremmo condannati a rimanere perpetuamente nel cenacolo chiuso della nostra realtà, un cenacolo chiuso che diventa un carcere sbarrato dove le mura delle circostanze quotidiane incombono inquietanti su di noi, e noi cammineremmo continuamente soli – soli anche se siamo insieme – in un circolo che ritorna su se stesso, come nello splendido quadro di Van Gogh: La ronda dei prigionieri.
“La realtà forse è rotonda”, dice egli in una sua lettera, ormai in preda al ritmo allucinatorio della sua psicosi, tanto da farsi anche espressione formale nei suoi quadri più tardivi. Un’espressione pittorica che sembra tradurre simbolicamente l’inquietudine stessa del cuore umano tormentato dal suo desiderio insaziabile di compimento, desiderio che si ritorce sempre su se stesso, ricadendo nei confini chiusi del proprio limite: “Proprio in questo cammino ritorto circolano gli empi [gli uomini segnati dal loro limite originario], bramando per legge della loro natura ciò che possa appagare la loro brama, ma rigettando scioccamente ciò con cui potrebbero avvicinarsi al termine [del loro desiderio]” (San Bernardo, De diligendo Deo, VII,19). Il “Voi mi lascerete solo” (Gv 16, 32) se non fosse superato da Cristo che può penetrare ogni recinto chiuso, non può che sfociare in questa tragedia. “Forse la realtà è rotonda”. Non se ne esce! Si soffoca!
È vero, non se ne uscirebbe. Però qualcosa è – appunto – inaspettatamente entrato nella stanza sbarrata, spazzando via ogni sentore di chiuso: “venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore”. L’inaudito è accaduto, l’impensabile (perché non si può pensare ciò che ancora non è accaduto) ha posto la sua realtà davanti ai nostri occhi. Come si comprende allora la sapienza ultima del salmo che completa e supera il realismo della sua precedente affermazione dicendo: “Di ogni cosa perfetta ho visto il limite, ma la tua legge – il tuo avvenimento – non ha confini”. Dentro i confini chiusi adesso è presente Qualcuno che non ha confini perché è uscito dalle porte sigillate della morte.
“Venne Gesù … [e] mostrò loro le mani e il fianco”. Mostrò loro, nella sua carne reale, che ogni loro confine, assunto da lui, era stato superato: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”. Tutti i vincoli delle nostre chiusure limitanti sono adesso assunti e spezzati dentro le sue piaghe aperte. Anche i limiti della cosa più perfetta che esiste nel nostro mondo imperfetto, la nostra compagnia ecclesiale, si aprono continuamente su una prospettiva senza confini, si aprono in Cristo al Padre, si aprono alla misericordia del Padre dentro i segni della misericordia del Figlio. Il limite è aperto e diventa una finestra che si affaccia sull’Infinito, perché l’Infinito si affaccia in proprio in esso: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Se qualcuno guarda attraverso le piaghe di Cristo vede il volto misericordioso del Padre.
È una promessa che scaccia il timore e ci rende arditi, arditi pur nel limite sempre ritornante, perché il cerchio è spezzato e noi possiamo meritoriamente slanciarci verso la nostra vera perfezione, attingendo a quei meriti, a quelle possibilità di grazia infinita e misericordiosa, che Cristo in sé continuamente ci offre attraverso la fonte sempre scaturente dal suo Cuore squarciato: “Il mio merito, quindi, è la misericordia del Signore, e non sono privo di meriti fino a quando egli non lo sarà di misericordie” (San Bernardo, 61 Super Cantica).
Questo Cuore dobbiamo cercare, in questa gloriosa ferita dobbiamo porre la nostra mano, ma non quella del nostro dubbio come fu per Tommaso, ma quella della nostra fede mendicante di lui. Ma dove vedere e toccare? Dove porre le mani nelle sue ferite per sperimentare la pace di Cristo e gioire? Non dobbiamo commettere l’errore di Tommaso che sbagliò non sul desiderio di voler vedere e toccare, perché è nella carne che Dio ha voluto rivelarsi, ma sbagliò sul tempo e sul luogo: “Beati quelli che pur non avendo visto [me, ma vedendo me nella carne di quella compagnia che io ho scelto per manifestarmi] crederanno”. Doveva guardare e toccare il volto di carne dei suoi fratelli, un volto non più timoroso, ma cambiato, trasfigurato da una Presenza viva, restituita dalla morte. Dal quel volto scaturiva una pace e una gioia impossibili all’uomo. Dai limiti della loro umanità si affacciava adesso il Volto infinito di colui che tanto avevano amato. Le ferite nostre, le ferite della compagnia, non sono ostacolo all’avvenimento di Cristo, ma sono l’inevitabile condizione che permette il manifestarsi della sua misericordia: ogni peccato è rimesso, ogni circolo tortuoso è trasformato nella via piana di un avvenimento che procede baldanzoso nella storia proprio per mezzo di questa nostra limitata compagnia, sospinta dal soffio dello Spirito a penetrare dentro il carcere chiuso del mondo dove l’uomo ricircola su se stesso: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Chiediamo alla Madonna, a lei che non ha sperimentato i limiti del peccato, ma che non ha potuto, e non ha voluto evitare le trafitture della Croce del suo Figlio, che non ci scandalizziamo delle nostre e altrui ferite; sono il luogo paradossale della nostra speranza e lo scopo operativo del nostro amore: “Se le misericordie del Signore sono dunque molte, anche i miei meriti sono assolutamente molti. Che importa se sono cosciente dei miei molti delitti? «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia». E se «la misericordia del Signore è da sempre, e dura in eterno», anch’io «canterò senza fine le misericordie del Signore»” (San Bernardo, 61 Super Cantica).
Se accade questo, allora anche solo l’ombra apparentemente inconsistente della nostra vita – come quella di Pietro – passando per le vie delle circostanze umane, può illuminare il destino di un uomo. Siamo l’ombra luminosa della luce misericordiosa di Cristo che passa dentro la storia: “Lumen gentium cum sit Christus … super faciem Ecclesiae resplendent” (LG, 1).