Questo è il giorno fatto dal Signore: alleluia, alleluia!
Domenica di Pasqua – «Risurrezione del Signore»
At 10,34a.37-43; Col 3,1-4; Gv 20,1-9
di don Ambrogio Clavadei
N.B. Per quanto riguarda la traduzione di Gv 20, 5-7, vangelo proclamato nel giorno di Pasqua, mi rifaccio alle considerazioni illustrate da Vittorio Messori in (pubblicate in esteso anche in Dicono che è risorto. Un’indagine sul sepolcro vuoto di Gesù, Ed. SEI, 200, rieditato da Ed. Ares, 2021), le quali si rifanno a loro volta agli studi filologici di don Giovanni Persili. Queste considerazioni (che sembra abbiano colpito il papa Giovanni Paolo II tanto da auspicare che fossero adottate dalla nuova traduzione CEI (cfr. qui) permettono una traduzione più adeguata di questi importanti versetti, l’unica che giustifica la ragionevolezza del fatto che quando l’apostolo Giovanni scorge quanto contenuto nel sepolcro ormai vuoto egli scrive di sé che “vide e credette”, iniziò cioè a credere al fatto impensabile della Risurrezione del suo Signore (“Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti). Il tutto gli appare come una sorta di bozzolo chiuso di crisalide da cui però il corpo risorto di Cristo è uscito per potenza divina senza sconvolgere i segni umani della sua morte, lasciandoli intatti, ordinati, quasi a dire che se apparentemente nulla è mutato dell’ordine precedente della realtà, di fatto è avvenuto un cambiamento radicale; c’è adesso un nuovo kosmos inaugurato dalla Risurrezione, una trasformazione che ha posto la realtà in una nuova definitiva armonia che ha sconfitto il kaos generato dal peccato e dalla morte (il motto massonico ordo ab chao cerca di farne la scimmiottatura in quanto particolare espressione di colui – il diavolo – che viene chiamato simia dei, scimmia di Dio). La traduzione CEI ed anche altre (non però la Bibbia di Navarra che la pensa come Persili) non riescono invece a dare ragione adeguata di questa fede iniziale dell’apostolo Giovanni. Tutto questo non è una questione di poco conto perché la fede nella Risurrezione (e comunque la fede come tale) non può esentarsi, né lo vuole, dal confronto con la ragione, intesa come capacità di rendersi conto del reale secondo la totalità dei suoi fattori. Per tutto questo, prima dell’omelia, riporto il testo corretto in base a quanto appena detto.
Gv 20, 1-9: “1 Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. 2 Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
3 Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. 4 Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
5 Egli chinatosi, scorse le fasce distese, ma non entrò. 6 Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e contemplò le fasce [che avevano avvolto il Signore chiuso nel lenzuolo della sindone] distese [cioè non manomesse ma afflosciate sul lenzuolo], 7 e il sudario, che era sul suo capo, non [però] disteso con le fasce, ma [al contrario] avvolto [rimasto cioè rialzato nella stessa posizione di quando contornava il capo di Gesù, anche se ora era vuoto e quindi, di fatto, mostrandosi] in una posizione unica [singolare, straordinaria, eccezionale, perché contro le leggi della gravità].
8 Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette [iniziò a credere al fatto della Resurrezione di Cristo]. 9 Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”.
La Settimana Santa che abbiamo appena vissuto ci ha ripetuto in fondo, ancora una volta, una cosa sola: Cristo ci ha amato sino alla fine, si è commosso per noi tutti sino alla dedizione ultima di sé. Non c’è infatti commozione vera se non è dedizione fino all’estremo, perché commozione è dedicarsi totalmente a ciò che ci appartiene così che il destino dell’altro si compia, come una madre o un padre cercano di fare per i propri figli.
Dal giorno della Risurrezione e da quel giorno per ogni giorno fino all’ultimo giorno tutta la storia dell’uomo e di ogni singolo uomo, e così tanto più la nostra vita, è ormai definita una volta per tutte da questa commozione di Cristo. Si è commosso, si è mosso con noi secondo la traiettoria che la nostra esistenza traccia dal suo sorgere al suo declino: dalla nascita alla morte Cristo ha condiviso ogni fibra della nostra condizione umana, fino a quel farsi peccato per noi (cfr. 2 Cor 5, 21) mediante il quale il Venerdì Santo lui, l’Innocente, è diventato “l’Agnello … che toglie [che ribalta] il peccato del mondo” (Gv 1, 29), la vera pietra tombale che schiacciava la nostra umanità.
Ma se la sua commozione si è inserita dentro la traiettoria della nostra umana fragilità, non si è lasciata appunto definire da essa: questo è il messaggio decisivo della Pasqua. Non è infatti la nostra vita a definire la sua, ma, appunto, la sua a definire la nostra. La sua commozione ha ribaltato la pietra del sepolcro, l’ha mossa via: egli è risorto dalla morte, si è mosso là dove si arresta definitivamente ogni possibile speranza di movimento umano che non può non subire l’immobilità della morte, salario del peccato (cfr. Rm 6, 23), “entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sap 2, 24). Cristo invece è risorto rendendo possibile l’impossibile, così come quando tutto iniziò, perché “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1, 37). Sempre egli ormai si propone a noi con questa sua commozione inaudita, anche se è più di duemila anni che ne ascoltiamo la notizia, Ma dobbiamo sempre nuovamente farla diventare nostro canto di certezza: “Alleluia, lapis revolutus est, alleluia, ab ostio monumenti, alleluia, alleluia …” (da Cantus selecti, Ed. Solesmes).
Se dunque non ci sorprende questa sua commozione che si è manifestata come possibilità di un impossibile accadimento che, già ancor prima di essere constatato, ha iniziato a far muovere diversamente – quasi per un felice sospetto – Maria di Magdala, Pietro e Giovanni (perché tutti si mettono a correre, si mettono in movimento), se non ci sconvolge questo sussulto di commozione ultima che è la sua Risurrezione di cui noi siamo ormai testimoni consapevoli e stupiti, allora la pesante pietra tombale del nostro peccato ci rinchiude ancora totalmente dentro il sepolcro dei nostri limiti. Se invece accettiamo di diventare parte consapevole e grata della sua commozione, la lastra sepolcrale del nostro limite è rovesciata, accantonata, addirittura irrisa, come in quel brano di vangelo dove si narra che l’angelo, dopo averla fatta rotolare via dal sepolcro, vi si siede tranquillamente sopra (cfr. Mt 28, 2). Bisogna allora che la commozione di Cristo che ha cambiato la faccia della terra e della nostra umanità, ci definisca totalmente: “Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù”, cioè cominciate a pensare diversamente, secondo una mentalità nuova, alle cose della terra, alle cose che facciamo tutti i giorni, ma che se non riferite a Cristo, se non offerte a lui, se non vissute per dargli gloria, finiscono loro per definirci, e non diventa possibile l’esperienza gioiosa del Signore risorto, ma si rischia di cadere in una tristezza che nega alla speranza di Cristo di sorgere gioiosa sull’orizzonte delle nostre giornate. Quanta nostra fede è di fatto vissuta come assenza di una Presenza, cioè come non incidenza reale e giudicante di ciò in cui diciamo di credere! Ci si ferma al dubbio amletico di Pietro alla tomba, che vide e ancora non credette, nonostante potesse scorgere i segni ragionevoli lasciati da Cristo, tracce luminose da seguire dentro l’’oscurità del sepolcro (oggi per noi dentro la selva oscura della vita). Giovanni invece “vide e credette” e iniziò con lui quella commozione che adesso dovrebbe avvincere il nostro cuore come esperienza matura della nostra fede.
Ma – ulteriore passo conseguente – la nostra commozione non sarebbe ancora vera, se non riconoscessimo che il segno della commozione di Cristo Risorto, con cui siamo coinvolti nella celebrazione della sua e nostra gioia (cfr. 1 Gv 1, 4), è una storia, la storia di una compagnia di uomini che, proprio perché commossi da Cristo, si commuovono l’uno per l’altro, si muovono insieme, corrono insieme come facevano Pietro e Giovanni, vibrano insieme, tutto condividendo fino ad essere “un cuore solo e un’anima sola” (At 4, 32), diventando un solo e unico movimento dentro la divisione immobilizzante del mondo: dalla commozione la comunione, e dalla comunione la missione, il discorso di Pietro, come invito a muoverci per diventare anche noi profeti che cercano di riscuotere alla vita il cadavere rassegnato del mondo: “Noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute”. Noi come Chiesa siamo la commozione visibile e incontrabile di Cristo per il mondo, per un mondo che altrimenti mai potrà udire la sua voce confortante, oggi più che mai necessaria nella devastazione disumana che ci circonda e dove pure qualcuno cerca e va cercato: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?” (Gv 20, 15).
Allora la grande alternativa della Pasqua è proprio questa: o commozione o rassegnazione; o la vita con Cristo, il costruire la nostra esistenza imperniati alla sua pietra angolare, o il crollo di tutte le nostre attese ed opere che senza questo puntello rovinano inesorabilmente: “Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso. Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo” (1 Pt 2, 6-8).
Mentre camminiamo nel tempo la nostra vita certo è ancora “nascosta con Cristo in Dio”, ma è nascosta come su quella di Cristo che attese per tre giorni di risorgere, nascosto nel suo bozzolo di morte ma però sempre congiunto col Padre (cfr. Gv 10, 27-38). Chiediamo al Signore Risorto che questo nascondimento dentro il cuore della sua commozione risorta per noi e che attende ardentemente la piena manifestazione della sua gloria testimoniandola già ora nel mondo, non si trasformi in quel nascondimento tenebroso che oggi certa Chiesa evidenzia là dove essa ha la pretesa di meglio testimoniare il volto del Risorto celandone però la singolarità assoluta e la sua pretesa universale di essere l’unico Salvatore e Signore. Bisogna invece che il volto della sua presenza nel mondo, quel Volto Santo che esprime la sua fisionomia mediante il telo santo della Chiesa che come Sposa a lui si stringe e lo circonda, rimanga in quella posizione “unica” che il discepolo prediletto vide e che, proprio perché “unica” e irripetibile, stimolò la sua fede. Solo così egli ragionevolmente “credette”.