La ripetitività dei contenuti della cultura da obitorio che ci avvolge è la fotografia della fissità della cultura odierna e risente di uno stile di vita standardizzato. Il processo rivoluzionario è isolato dalla realtà che costringe di fatto ogni moto centrifugo all’immobilità.
di Tommaso Scandroglio (06-11-2024)
Tre notizie. È stato presentato presso la Regione Sicilia un disegno di legge contro l’omo-transfobia. A Valencia si è verificata una «strage climatica». Per Trump i migranti sarebbero spazzatura. Qual è il fil noir che lega queste tre notizie? Certamente il politicamente corretto, ma c’è dell’altro. Qualcosa di più profondo: la ripetitività dei contenuti della cultura da obitorio che ci avvolge come un sudario.
La fissità della cultura odierna è riflesso della serialità dei prodotti di matrice industriale che acquistiamo e risente di uno stile di vita standardizzato. È ormai diffusa da tempo l’immagine, peraltro assai efficace, del supermercato delle idee, idee da consumare, cose che nella loro finitezza non possono che continuamente sostituirsi con altrettante cose di identica fattura.
La circolarità del sapere della coscienza collettiva è provata da alcuni indizi. In primis l’opinione è diventata dogma irriformabile: è solo la donna che può decidere in merito all’aborto, omosessuali si nasce, il fascismo non è mai morto, l’uomo è il cancro del pianeta, etc. La rigidità del pensiero regredisce a fissismo e dunque conservatorismo: alla regola imposta ex cathedra – che sia tinta di verde, rosso o arcobaleno poco importa – nulla si può obiettare, nulla eccepire perché immodificabile, regola da tenersi in modo definitivo. La necessità ideologica diviene allora vincolo soffocante, canone coatto spacciato come strumento di libertà. È questa dunque l’era, sempre più breve, della ripetitività dei concetti, della monotonia degli slogan, dello stereotipo elevato a novità solo per i ciechi, del moto perpetuo e concentrico delle infelicità travestite da trasgressioni, delle deperibilità delle verità. Si rimane a bocca aperta di fronte a certi fenomeni sociali perché si sbadiglia. I proclami di una certa e solita intellighenzia sanno dunque di stantio e vecchio.
La fissità della sensibilità contemporanea si rileva anche nell’interpretazione e percezione del tempo. Esiste un tempo unico, il tempo presente. Non è predicabile un dinamismo dell’oggi che guarda indietro, nel passato (la cancel culture attesta la validità di questo asserto) e dell’oggi proiettato avanti, nel futuro. Il futuro, invero, è spesso citato da molti, ma come necessaria utopia da inseguire correndo sul posto. È infatti necessario al sovvertimento dei costumi che gli obiettivi posti nel domani mai si raggiungano.
Pensiamoci bene. Il proletariato è mai arrivato al potere? La donna si è mai emancipata in tutti i suoi spettri sociali? Gli africani sono diventati finalmente occidentali vivendo la condizione dell’uomo di etnia caucasica? La Terra ha smesso di riscaldarsi? Gli omosessuali hanno lasciato alle spalle la soglia della discriminazione? Il futuro deve solo diventare una promessa da non esaudire mai, una meta verso cui correre e per la quale battagliare senza sosta, nonché analgesico stimolo per sopportare il tragico presente nella speranza messianica che un politico, un partito, un movimento, una commissione europea, uno scienziato, un giudice, un influencer possano finalmente farmi diventare altro da me stesso. Ma la prigionia – altra condizione che richiama la ripetitività e la fissità – dell’Io permane, la limitazione del sé individuato in un sesso consegnato al concepimento, in una storia biografica data, in un’etnia e in un popolo in cui si è nati è il carcere da cui evadere, ma da cui è impossibile evadere.
Il desiderabile altro da sé e, di converso, l’identità propria percepita come nemica e straniera sono forse i postulati più rappresentativi ed espressivi della contemporaneità. L’alterità è celebrata come affermazione del sé. Una contraddizione. Il “se fossi e se avessi” indicano allora il “se” come strada ipotetica per giungere al “sé”. E non serve scomodare il transgenderismo o il femminismo per verificarlo, ma è sufficiente sfogliare le biografie degli amici, dei parenti o forse le nostre stesse biografie: un altro lavoro, un altro ambiente sociale, un altro marito, un’altra nazione, un’altra famiglia d’origine, un altro stipendio, un altro temperamento, un’altra salute avrebbero finalmente restituito me a me stesso, avrebbero consegnato l’autenticità alla mia esistenza. Ma ciò non è accaduto e mai accadrà e il risultato è sentirsi inchiodato in un destino percepito come estraneo, alieno e violento. La fissità, nella sua declinazione amara della incompiutezza e del fallimento, sigla spesso la nostra condizione esistenziale.
Ritorniamo al futuro (palese citazione cinematografica). Il futuro impossibile da vivere – perché il futuro è la linea dell’orizzonte che mai potrà essere raggiunto – allora trasforma il presente in una bolla atemporale e come tale si fissa in un hic et nunc perenne, identico a sé in modo costante, sclerotizzato in aneliti, battaglie, ansie, progetti sempre uguali perché gli obiettivi non sono stati mai raggiunti e mai si potranno raggiungere a motivo di alcuni impedimenti: il figlio ucciso perseguiterà sempre le coscienze delle donne, il sesso genetico sarà sempre il collare a strozzo che soffocherà i transessuali, i dati sulla criminalità saranno sempre il ceppo all’immigrazionismo assoluto, il dolore dei figli rappresenterà sempre l’ulcerazione al piede per quegli sposi che se la sono date a gambe levate dal tetto coniugale, le estati più calde degli inverni e le notti più fredde del giorno tormenteranno gli ambientalisti. Questi ostacoli insormontabili costituiscono le barriere entro cui il dinamismo rivoluzionario è costretto a dimenarsi, sono le colonne d’Ercole al di qua delle quali l’evoluzione ristagna e s’involve, sono il perimetro invalicabile dentro cui la spinta progressista si stabilizza e dunque muore. Nati per la liberazione, muoiono nel carcere delle proprie idee. La stasi è la dimensione ontologica e infeltrita della trasformazione.
Vero è che la rivoluzione è processo dialettico mai fermo, ma questo processo è isolato dalla realtà che costringe di fatto ogni moto centrifugo all’immobilità: un uomo non sarà mai una donna, un bambino nel ventre di una madre non sarà mai un grumo di cellule, una persona malata mai potrà degradarsi a vegetale. Le mura dell’ordine costituito da Dio sono più alte dei nostri peccati.
Allora l’immagine più fedele della presente civiltà, che vive agonizzando una condizione di pre-morte, potrebbe essere quella della mosca intrappolata in un bicchiere rovesciato che vola con ostinazione e rabbia contro le pareti di vetro, non capacitandosi del motivo per cui l’aria si è fatta di colpo solida, impenetrabile. Quel bicchiere è la realtà, la cui durezza è l’antagonista perfetta alla famigerata liquidità odierna. L’attivismo anche radicale rimane dunque confinato entro uno spazio ben delimitato, bloccato sull’estremo limitare della natura delle cose che con ostinazione non si converte ai nuovi ismi. La mosca rivoluzionaria in verità non si muove, è obbligata dall’ordine naturale e soprannaturale – violabile solo moralmente – a volare con furia in una porzione di superficie ridotta e immutabile. Nel suo dinamismo disperato ed esausto si adombra tutta la sua circoscritta fissità e risplende l’infinità della realtà.
Presente rivoluzionario, ma stagnante: fenomenologia della stasi