Laura Santi, 48 anni, dirigente dell'Associazione Luca Coscioni, ottiene il "diritto" di farla finita. Ma dopo un lungo e complesso iter giudiziario che sembra essere il vero obiettivo dei Radicali: dimostrare che il sistema messo in piedi per accedere all’aiuto al suicidio è complicato, pieno di lungaggini ed impedimenti. Servono leggi light. Infatti la donna ora sembra ripensarci.
di Tommaso Scandroglio (16-11-2024)
Preparatevi. È un articolo noiosissimo. Ma c’è una ragione di tanto tedio, ragione che andremo a spiegare alla fine. Iniziamo. Laura Santi, 48 anni e consigliera dell’Associazione Luca Coscioni, è affetta da 25 anni da una forma di sclerosi multipla che l’ha resa triplegica. La signora Santi chiede quindi di morire. Vicenda simile a molte altre, purtroppo.
L’iter burocratico e giudiziario inizia il 20 novembre del 2022 quando la Santi, assistita dal solito pool di avvocati che fiancheggiano l’Associazione radicale Luca Coscioni e che è guidato dal Filomena Gallo, chiede all’Ausl Umbria 1 di accedere al suicidio assistito nel rispetto della sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale (qui un approfondimento). La Ausl però non acquisisce il parere del Comitato etico né individua i preparati letali da usare e le loro modalità di somministrazione. Ecco allora fare ricorso d’urgenza – perché morire è un’urgenza – al Tribunale di Perugia. L’Ausl interviene facendo presente che la Santi non soddisfa i requisiti previsti per accedere al suicidio assistito. Infatti la sua sopravvivenza non dipendeva da nessun trattamento salvavita, come richiesto dalla Consulta.
Il Tribunale perugino accoglie parzialmente la richiesta della ricorrente: quest’ultima ha il diritto di avere un parere del Comitato etico competente e, qualora questo fosse positivo, ha il diritto di chiedere, ma non di esigere, dall’Ausl che questa le indichi preparati letali e modalità di somministrazione. L’avvocato Gallo però non ci sta e propone un secondo reclamo: l’Ausl deve essere obbligata, qualora ci fossero i requisiti per accedere all’aiuto al suicidio, a fornire tutto quanto necessario per aiutare la Santi a morire. Il Tribunale accoglie il reclamo ed ordina all’Ausl di confermare o rivedere le valutazioni già espresse nel 2022 in merito alla richiesta della Santi. Ma l’Ausl risulta inerte e quindi la Santi la diffida. Nel dicembre del 2023 l’Ausl conferma la sua valutazione: la Santi non può accedere al suicidio assistito.
Poi la Corte Costituzionale si pronuncia nuovamente, lo scorso luglio, sul tema “aiuto al suicidio” con la sentenza n. 135/2024 (qui un approfondimento) e, tra le altre argomentazioni espresse, spiega che possono accedere al suicidio assistito non solo chi è già sottoposto a trattamenti salvavita, ma anche chi è prossimo ad accedervi, posto che il mancato accesso causi la morte in un breve lasso di tempo. Forti di questa sentenza i radicali che assistono la Santi, dopo un ulteriore esposto, solleciti e due diffide, ottengono finalmente dall’Ausl, il 12 novembre scorso, il via libera alla procedura che porterà la Santi nella bara. Ora mancano solo l’individuazione del preparato letale e le modalità di somministrazione.
Ma non è finita e i pochi lettori sopravvissuti a questa cronaca giudiziaria ci dovranno perdonare. Prima di tagliare il traguardo lo scorso 12 novembre, nel maggio 2023 la Santi depositava presso i carabinieri un esposto contro l’Ausl per omissione d’atti d’ufficio. L’esposto veniva archiviato e la Santi opponeva ricorso. Questo veniva poi accettato e il Gip chiedeva dunque al PM di iniziare le indagini. Nel marzo del 2024 il PM chiedeva l’archiviazione. Nuova opposizione. Il 20 settembre scorso il Gip si riservava di valutare l’opposizione. Infine la Santi ha depositato un atto di intervento nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019 della Consulta. Fine.
Ora una domanda che rivolgiamo ai ventiquattro lettori superstiti (uno in meno rispetto a quelli del Manzoni): perché redigere questa cronistoria giudiziaria tanto analitica quanto noiosa del caso Santi? Era necessaria per far comprendere, quasi a livello epidermico, alcuni aspetti della strategia radicale e della quaestio suicidio assistito. In primis dobbiamo imparare dai radicali una lezione, quella della perseveranza. Dagli e poi dagli la spunti. Si era già visto nel caso Eluana: per sei volte il padre Beppino Englaro si era visto respingere da altrettanti giudici la sua richiesta di eutanasia per la figlia. Poi la spuntò. Chi la dura la vince perché prima o poi troverai il giudice compiacente o che non vuole grane. Non solo. La battaglia giudiziaria contro l’Ausl serve da monito a tutte le aziende sanitarie locali: per evitare rogne che durano anni concedete subito quanto i radicali chiedono.
Seconda riflessione. Tutti questi inciampi burocratici e giudiziari sono una manna dal cielo per i radicali perché permettono a loro di affermare che ci vorrebbero leggi regionali o statali più liberal, molto più permissive delle due citate sentenze della Consulta, al fine di permettere di accedere all’eutanasia in modo più spedito e semplice. Ecco perché i radicali non vogliono trovare scappatoie, anche legalmente legittime, per far accedere all’eutanasia i propri assistiti: non è morire il reale scopo, bensì dare prova che il sistema messo in piedi per accedere all’aiuto al suicidio è complicato, pieno di lungaggini ed impedimenti. Ciò è tanto vero che la Santi, da quanto dichiarato dal Corriere, non vuole avvalersi della procedura. Ma come?! Due anni di battaglie legali ed ora ci ripensa? In realtà forse non ci ha ripensato, ma ha solo voluto mettere in evidenza le difficoltà di chi desidera accedere all’eutanasia.
Terza riflessione. Tutto questo accidentato e complicato iter giudiziario cancella definitivamente l’esegesi secondo cui la sentenza della Consulta del 2019 avrebbe solo depenalizzato il reato di aiuto al suicidio al verificarsi di alcune condizioni, ma non avrebbe riconosciuto nessun diritto a morire. Questa vicenda mette invece in luce che l’aiuto al suicidio è trattato a livello giuridico come diritto civile e non come mera facoltà di fatto risultante da una depenalizzazione. In primo luogo perché i giudici aditi appartengono al rito civile, quando, invece, dovendosi trattare di un reato e di eventuali scriminanti il rito dovrebbe essere quello penale. In secondo luogo perché, in questa vicenda, i tribunali hanno usato spesso lo strumento dell’ordinanza – ossia di un comando – in vista dell’accesso al suicidio assistito. E se c’è un obbligo in capo alla pubblica amministrazione a seguito di un’ordinanza, vuol dire che in capo a qualcuno c’è un diritto, realtà giuridica differente dalla condotta depenalizzata. Inoltre un’ordinanza, per sua natura, poco o nulla c’entra con una depenalizzazione di una condotta.
Infine vi è un terzo motivo: i ricorsi, i contro ricorsi, gli esposti, le diffide, le ordinanze, etc. mal si conciliano con l’intento di provare l’innocenza di una persona, perché ciò che chiede non si configura come reato. Sono più consoni alla richiesta di riconoscere un diritto, così come più volte evidenziato dagli avvocati della Santi, a cui, infine, auguriamo di cuore lunga vita e quindi di ripensarci.
Suicidio assistito: non è (solo) per la morte, ma per la burocrazia