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Ci mancava lo sciopero del sesso delle femministe
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Ci mancava lo sciopero del sesso delle femministe

La trovata di "Non una di meno" per la Festa delle donne: scioperare dal sesso contro il patriarcato. La prova che per i collettivi femministi l'amore è lavoro. E figli, mariti i soliti nemici.

di Tommaso Scandroglio (08-03-2025)

Quali sono i bisogni primari e materiali dell’essere umano? Fame, sete, sonno, respirazione, evacuazione e… sesso. I Radicali da tempo ci hanno abituato allo sciopero della fame e della sete. Qualche volenteroso si è spinto sino allo sciopero del sonno. Nessuno a noi noto però si è rifiutato di appoggiare le terga sul WC per motivi politici o sociali.

L’astensione dai rapporti sessuali ha invece una sua corposa biografia. Nella commedia Lisistrata del drammaturgo greco Aristofane le mogli si rifiutano di accoppiarsi con i mariti per far finire la guerra del Peloponneso. All'interno del popolo degli Igbo, nella Nigeria pre-coloniale, le donne avevano un loro Consiglio. Se maltrattate potevano ricorrere allo strumento dello sciopero che avrebbe intaccato le loro mansioni domestiche e poteva includere anche i rapporti sessuali.

Nel ’97 il generale colombiano Manuel Bonnet chiese alle donne dei guerriglieri e dei trafficanti di droga di non concedersi più ai loro uomini, al fine di ottenere un cessate il fuoco. Nel 2006 sempre in Colombia le donne della gang Pereira diedero vita ad uno sciopero del sesso chiamato Lo sciopero delle gambe incrociate – perché ad incrociare le braccia a volte si ottiene meno che ad incrociare le gambe – per far cessare le violenze tra gang. Stessa cosa accadde nel 2011 in alcuni villaggi delle Filippine per motivi analoghi. Nel 2009 in Kenya alcune attiviste proposero lo sciopero del sesso come protesta verso una situazione governativa instabile. In quell’occasione il gruppo propose un indennizzo a quelle prostitute che avessero aderito allo sciopero. Iniziativa simile e per motivi analoghi si registrò nel 2012 nel Togo. Nel 2003 in Liberia un gruppo femminista lanciò anch’esso l’idea dello sciopero del sesso per ottenere la pace in quel Paese martoriato dalla guerra. Infine la stessa strategia si applicò in Sud Sudan nel 2014.

Forse visti simili e importanti precedenti, il collettivo rosa Non una di meno ha indetto per la Festa della donna lo Sciopero transfemminista contro violenza patriarcale, guerra e povertà, sciopero che include la serrata dell’organo riproduttivo femminile. Banale a dirlo – e a sottolinearlo potrebbe essere solo un bianco, eterosessuale, maschio alfa, tirocinante cattolico – la violenza patriarcale, la guerra e la povertà sono tutti guai usciti dal vaso di Meloni. Questa almeno è la conclusione che si ricava dalla lettura del comunicato delle femministe. E poi ci si appella alla lotta agli stereotipi…

Nota esplicativa: il transfemminismo è quel femminismo bulimico che lotta non solo per il gentil ed agguerrito sesso, bensì anche per transessuali, omosessuali, immigrati clandestini, prostitute, persone di colore, etc. Ed infatti nel comunicato possiamo leggere: «Non riconosciamo il femminismo transfobico, salito sul carro governativo: sostenere le lobby antiabortiste nei consultori e negli ospedali, togliere fondi ai percorsi di affermazione di genere, negare i diritti ai minori nat3 [non è un refuso ma esperanto ideologico] in famiglie omogenitoriali, sono incompatibili con l’orizzonte di libertà e autodeterminazione dei corpi e delle scelte di vita. La marea femminista è trans, lesbica, frocia, migrante, razzializzata, antirazzista, antiabilista».

Quindi spiegato chi sono Non una di meno e il motivo di tanta accesa indignazione che più che rosa è rossa, veniamo allo strumento di lotta scelto da costoro: «L’8 marzo 2025 chiamiamo allo sciopero transfemminista dal lavoro produttivo, riproduttivo e di cura, dei consumi». Fermiamo la nostra attenzione sul «lavoro […] riproduttivo e di cura». In merito al secondo le femministe chiamano ad una astensione «da ogni forma di lavoro, a cominciare da quello di cura nei contesti famigliari». La cura dei figli, del marito, del fidanzato è per questo gruppetto di arrabbiate a tempo indeterminato un lavoro. Quando si accompagna il figlio a scuola, quando lo si aiuta nei compiti, quando si cucina, quando si fa la spesa, quando si ascolta il marito, non si ama. Si lavora. È la classica prospettiva distorta del marxismo che riduce tutto in termini economici, l’unico aspetto sociale a non essere sovrastruttura e quindi unica lente autentica attraverso cui guardare la vita. Messa così, la famiglia diventa un’azienda dove sventolare rivendicazioni sindacali, dove scioperare nei confronti di figli e mariti, dove concludere il rapporto di lavoro con il divorzio. Un distinguo importante: l’impegno della madre e moglie in casa dovrebbe essere riconosciuto anche sotto il profilo economico dallo Stato non perché professione, ma perché contribuisce al bene comune.

Passiamo allo sciopero delle gonadi. La musica non cambia: anche quello è un lavoro. Il lavoro riproduttivo. Curioso poi che abbiano scelto questo aggettivo, dato che le madri e le nonne di queste fanciulle, incattivite contro tutto ciò che non è anarchia, hanno per decenni fatto guerra alla prole: con la contraccezione, con l’aborto e, ancora una volta, con il lavoro. Inoltre parlare di lavoro riproduttivo degrada la donna a pollo in batteria.

Dunque apprendiamo che il sesso è un lavoro. Ma se il sesso è un lavoro, ne consegue che l’unica differenza tra una moglie e una prostituta sta nel fatto che la prima lavora gratis, la seconda no. La prima opera pro bono, la seconda pro pecunia. La prima fa volontariato, la seconda è una professionista.

Lo sciopero del sesso, come abbiamo visto, non è una trovata folkloristica, bensì è espressione di una certa kultura. Nel ’68 nacque lo slogan «il personale è politico», a voler dire che niente di privato poteva rimanere tale, ma tutto doveva diventare pubblico, vita privata compresa: il militante vota la sua intera esistenza alla lotta politica. Anche l’intimità viene politicizzata. Il sesso diventa strumento di potere, di ricatto in questo caso specifico, e così anche i corpi vengono espropriati dalla rivoluzione per la rivoluzione stessa. La rivoluzione sessuale è anche questo: reificare la persona e far dell’utero e della vagina luoghi per rivendicare tutto ciò che non è donna, per negare il ruolo di madre e moglie. Niente figli con l’aborto, dove l’utero diventa luogo del delitto, niente cura dei figli perché questi sono nemici dell’emancipazione, niente amore con il marito perché sarebbe sudditanza, espressione del patriarcato.

Le donne di Non una di meno non si appartengono più. Appartengono ormai alla causa che chiede il martirio degli affetti, delle relazioni, dell’intimità che diventa arma politica. È la castità militante.

LA NUOVA BQ

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